Negli ultimi anni la città di Torino si è trovata al centro di quel vasto territorio di scoperta che è il settore aerospaziale. Molte sono le aziende torinesi che hanno aperto collaborazioni per la costruzione di moduli abitativi o attrezzature da utilizzare in quel viaggio, sempre meno fantascientifico e sempre più reale, che porterà gli uomini e le donne della terra a disseminarsi al di fuori del pianeta che ci ospita.
In questa direzione andava sicuramente la mostra esposta in piazza Vittorio dal 23 novembre al 1 dicembre Exploring Moon to Mars, che ha raccontato al grande pubblico la storia dell’esplorazione del pianeta Marte e la sua futura colonizzazione partendo dalla Luna, con una particolare attenzione all’importante contributo italiano a questa avventura. Ma quello che oggi pare essere quasi a portata di mano è un sogno che gli scrittori di sci-fi coltivano da tempi remoti, almeno fin da quando padre Angelo Secchi, direttore dell’Osservatorio del collegio Romano, situato sui tetti della chiesa di Sant’Ignazio a Roma, scoprì su Marte, con un modesto telescopio nel 1859, due sottili configurazioni di colore rosso, a cui diede il nome di “canali”. Con le osservazioni di Schiapparelli il mito dell’abitabilità di Marte si rafforzò, sebbene il grande astronomo si sia sempre espresso con molta cautela.
La prima grande epopea di science fantasy ambientata su Marte del ‘900 sarà il ciclo di Barsoom di Edgar Rice Burroughs, un esempio di quello che i critici americani chiamano planetary romance. Marte è immaginato come perfettamente abitabile dal genere umano ma con una atmosfera talmente rarefatta da dover essere mantenuta costante da una enorme fabbrica che la ricrea continuamente. Qui siamo ancora nel solco della fantasy tradizionale e il protagonista, John Carter, per giungere sul pianeta userà una potente magia indiana che, dopo aver separato il suo corpo fisico da quello astrale, lo farà viaggiare fino al pianeta rosso. Un immaginario che potremmo definire quasi pre-industriale quello che guiderà Burroughs nella creazione del suo Marte, Barsoom, un pianeta distrutto e piegato dalla follia dei popoli che lo hanno abitato.
Prima di Burroughs ci aveva pensato H. G. Welles, sul solco delle popolari ma infondate teorie di Percival Lowell sulle civiltà marziane, con La guerra dei mondi a far invadere la Terra dai Marziani, con un romanzo che divenne seminale per il genere sci-fi.
Anche Leigh Brackett, la “regina della space opera”, userà spesso Marte come ambientazione per i propri racconti. Il pianeta è al centro di una vasta rete commerciale e politica in cui si scontrano le varie civiltà del Sistema solare. È interessante notare che, dopo che le missioni Mariner americane dimostrarono inesorabilmente che i pianeti del Sistema non fossero abitati, la scrittrice non tornerà più sull’argomento, quasi a suggellare la conclusione di una credenza popolare che aveva infiammato così tanto i sogni degli scrittori di fantascienza.
Si apre così la stagione dei racconti che si concentreranno sulla colonizzazione di Marte da parte dei terrestri e solo pochi autori proseguiranno nel racconto, ormai scientificamente obsoleto, di un pianeta con una sua vita intelligente autoctona. Uno di questi sarà Ray Bradbury con il suo capolavoro del 1950 Cronache marziane, un fix-up (cioè un romanzo formato da tanti piccoli racconti non per forza collegati fra di loro) in cui si narrano le cronache dell’esplorazione e della colonizzazione di Marte, patria dei nativi marziani, da parte di un gruppo di terrestri scampati alla catastrofe nucleare sulla Terra.
Il terraforming di Marte sarà poi al centro di tutto un filone della sci-fi che, mischiando immaginazione scienza e tecnologia dell’epoca, proverà a immaginare e a proporre idee per trasformare il pianeta rosso in una piccola Terra. Ci penserà Arthur C. Clarke con Le sabbie di Marte a raccontarne la trasformazione, immaginando di poter ricreare un’atmosfera respirabile dagli esseri umani grazie a delle piante che liberassero l’ossigeno contenuto nel suolo marziano e di modificare il clima, creando un piccolo sole artificiale che lo riscaldasse.
Le missioni Viking che nel 1976 portarono le due sonde su Marte fecero sì che l’immaginazione della letteratura di anticipazione si concentrasse sulla trasformazione dell’ecosistema marziano, dopo che gli scienziati, quelli veri questa volta, ipotizzarono la presenza di acqua sul pianeta, rendendo le speculazioni letterarie ancora più verosimili.
Il racconto della scoperta, trasformazione, colonizzazione di Marte da parte della letteratura di fantascienza potrebbe essere talmente vasto da riempire pagine e pagine: qui vorremmo limitarci a dare qualche indicazione su altri due filoni molto interessanti, quello utopistico-distopico americano e quello sovietico.
In Martian timeslip (in italiano Noi marziani, 1964) Philip Dick descrive la comunità umana che vive su Marte con i suoi complotti e le sue macchinazioni. Al centro del racconto c’è il protagonista che, per una condizione particolare e forse per il suo collegamento con i nativi di Marte, i Bleekmen, è in grado di spostarsi nel tempo. La rappresentazione politica del pianeta e la sua colonizzazione ebbero una ricezione critica buona quando il romanzo venne pubblicato, in quanto si poteva leggere in filigrana una critica alla colonizzazione occidentale dei popoli indigeni. Il fatto che fosse ambientato in un futuro prossimo e vicino lo rendeva uno specchio delle contraddizioni della cultura e della politica americana di quegli anni. Non solo, vi si nota inoltre una precocissima sensibilità ai temi ambientali, alla questione del climate change: Elena Corioni, in Apocalyptic Visions from the Past: The Colonization of Mars in Dick's Martian Time-Slip [1], nota che la possibilità che gli uomini possano scampare alle conseguenze del cambiamento climatico colonizzando Marte sia diventata più una realtà che non una fantasia fantascientifica, e che il romanzo di Dick sia una critica radicale a questa possibilità. I coloni terrestri scacciano i Bleekmen, in grado di vivere in maniera sostenibile su Marte indefinitamente, sostituendo alla loro società una forma distopica di capitalismo destinato a distruggere l’ecosistema marziano nello stesso modo in cui avevano distrutto quello terrestre da cui erano dovuti fuggire.
Nella fantascienza sovietica Marte diventa invece il set in cui rappresentare utopie socialiste e rivoluzioni. Il primo scrittore russo ad aprire questo filone è stato Aleksandr Bogdanov che, con il romanzo Stella rossa, ritrae una società socialista su Marte vista con gli occhi di un bolscevico invitato sul pianeta. Su Marte la lotta di classe viene sostituita da una comune lotta contro la durezza dell’ambiente naturale.
Altrettanto interessante è Aelita (1923) di Aleksey Tolstoy: nel romanzo si racconta del viaggio verso Marte dei due protagonisti alla fine della Rivoluzione Russa. I due arrivano su Marte per scoprire che è abitato da una avanzata civiltà autoctona ma che la differenza di condizione tra le classi sociali è così accentuata da ricordare le condizioni dei lavoratori terrestri nell’epoca del primo capitalismo. Così uno dei due protagonisti, Gusev, si mette a capo di una rivolta politica contro gli oppressori, mentre il suo compagno si innamora di Aelita, la principessa dalla pelle blu di Marte. Anche il romanzo di Tolstoy è fortemente percorso da una sensibilità ecologista ante-litteram, in modo simile a quello di Dick, a dimostrazione che la presenza di Marte, nella fantascienza più impegnata e critica, segna sempre un confine, sottile, tra salvezza e dannazione, una riflessione sui destini e sul futuro dell’umanità.
Se e quando il genere umano si disseminerà su Marte, o sulla Luna, o anche solo in stazioni orbitanti intorno alla Terra, potremo valutare la forza o la debolezza della letteratura di anticipazione, se avrà saputo guidare i nostri passi, se avrà saputo metterci in guardia o se sarà stata un grande sogno ad occhi aperti (o chiusi).
Articolo realizzato da Agostino Salpietro, del Gobetti Marchesini Casale Arduino